ROMA – Quando, nel marzo 2010, l’allora Ministro per la Semplificazione Calderoli condannò al rogo con la fiamma ossidrica oltre 375.000 provvedimenti legislativi, avrebbe dovuto controllare meglio quali si sarebbero salvati dalle fiamme.
Pino Verga, uno studente della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma, ha infatti ritrovato una norma contenuta nel Diritto Romano, risalente addirittura al periodo di Settimio Severo (circa 190 d.C.), che per uniformare le misure anatomiche sconvolte nella loro modesta monotonia dal grande afflusso di schiavi dall’Africa, soprattutto dalla Numidia, prevedeva che tutti i membri maschili non dovessero superare la lunghezza di dieci dita (circa 18,5 cm.), misura massima rilevata presso i patrizi romani.
La legge non venne sostanzialmente mai applicata, non a causa della brutalità dei metodi indicati per portare a termine tale omologazione (si suggeriva apertamente il ricorso a daghe e coltelli per tagliare i centimetri in eccesso) ma per la forte resistenza delle matrone dell’Urbe, le quali non volevano perdere il privilegio di poter usufruire nel modo più pieno e appagante dei loro esotici acquisti.
Tuttavia, Verga ha scoperto che tale legge non solo non è mai stata abrogata ma che, anzi, è stata assorbita pressoché senza modifiche nel Codice Civile Italiano. Con tutte le dispute dottrinali del caso.
La discussione potrebbe quindi vertere sul fatto che la norma non indica se la lunghezza di decies digiti riguardi il membro eretto o a riposo o sul modo in cui possano venire normalizzati i peni di misura non conforme, auspicabilmente in modo più umano di quanto previsto dall’antica legge.
I maligni, comunque, non mancano di suggerire che all’epoca della sua incendiaria esibizione, a Calderoli la legge non fosse in realtà affatto sfuggita (l’avrebbe anche definita “penale”, tra l’ilarità degli altri ministri e del premier di allora), ma che ritenne gli elettori leghisti decisamente lontani dal pericolo di subire le prescrizioni in essa contenute.
Augusto Rasori